“Transmedia Archeology – Fantascienza, pulp, fumetti”.

 

Recensione a cura di Ilaria Solazzo, giornalista pubblicista.

Scovare e indagare i molteplici canali di diffusione e conoscenza di una storia o di un personaggio che ritroviamo, per esempio, in un film, in una serie a cartoni e perfino all’interno di videogiochi o di podcast. È lo scopo che si prefigge la moderna disciplina della archeologia transmediale. A questo settore del sapere accademico è dedicato un volume edito da Armando Editore nel 2020 a opera di tre “guru” della materia, Carlos Scolari, Paolo Bertetti e Matthew Freeman. A corredo del testo si trova anche un saggio intitolato “Transmedia Paradigma: more than meets the eye” a cura di Giovanni Ciofal, della università “La Sapienza” di Roma.


Nell’opera, i tre esperti riprendono la teoria del cosiddetto “transmedia storytelling”, ideata da Henry Jenkins nel 2003 secondo la quale ogni testo prodotto rientra in una “rete intertestuale” complessa, che spazia attraverso i canali di diffusione, portando con se differenti e innovative pratiche di fruizione e narrazione. Gli autori, prendendo in esame casi come “Conan il Barbaro”, “Superman” e “L’Eternauta”, e spaziando tra generi e media differenti – fantascienza, pulp, fumetto – dimostrano come il transmedia storytelling sia nato molto prima dell’era digitale.


Anche se il libro è estremamente lucido in proposito, serve evidentemente una spiegazione che cerchi di chiarire meglio ai nostri lettori cosa sia in effetti la transmedialità. In una intervista col giornalista Carmine Treanni sono proprio gli autori di questo volume a specificare: “Questo concetto si fa risalire ai primi anni ‘90, all’opera seminale di Marsha Kinder (1991), che introduce il termine parlando di transmedia intertestuality. La Kinder era una psicologa che studiava in che modo i bambini sviluppassero la capacità di comprendere una narrazione e, in particolare, di riconoscere ambientazioni e personaggi che, come nel caso delle Tartarughe Ninja, venivano loro proposte in diversi formati mediali: disegni animati, fumetti, film ecc. La fortuna del termine si deve però a Henry Jenkins, che in articolo uscito nel 2003 sulla rivista del MIT, introduce l’idea della narrazione transmediale”.


“Jenkins – continua l’intervista con il giornalista napoletano – definisce il transmedia storytelling come “un processo dove elementi integrati di una narrazione vengono dispersi sistematicamente attraverso molteplici canali con lo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata”. Una narrazione transmediale è quindi come un grande puzzle, all’interno del quale ogni nuovo tassello (che può appartenere ai media più diversi) offre un contributo originale e contribuisce ad arricchire la complessità dell’universo narrativo”. Sono molti gli esempi che vengono fatti e molto spesso il tema che li accomuna è la fantascienza. Ecco che allora si parla di “Matrix”, (il film scritto e diretto dai fratelli Wachoski nel 1999) e – in maniera ancora più compiuta – della serie “Star Trek”. Creata da Gene Roddenberry per la televisione a inizio anni ’60 e andata in onda per la prima volta nel 1966, la vicenda si è trasformata nei decenni in un classico globale della narrazione fantascientifica: dall’idea originale, sono nate altre sette serie tv (di cui tre animate, l’ultima ha debuttato nel 2021), tredici film, diversi spin off, addirittura otto serie differenti di romanzi, più giochi e videogiochi e, naturalmente, fumetti. Un autentico universo con personaggi capaci di muoversi da una piattaforma all’altra, trascinando con sé un pubblico perennemente attentissimo e appassionato. E un caso di studio perfetto per chi – come gli autori di “Transmedia Archeology – Fantascienza, pulp, fumetti” voglia accompagnare il pubblico a capire cosa c’è dietro il puro intrattenimento di una serie tv o di un film.

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